Cagliosa di Giuseppe Franza: un romanzo che racconta il calcio dilettantistico con la voce vera di Napoli

Cagliosa è un romanzo calcistico ambientato nell’estrema e disagiata periferia
napoletana. Il protagonista, Giovanni detto Vangò, è un venticinquenne che ruba
motorini per conto di un carrozziere e che nel tempo libero gioca a calcio nella
squadra del suo quartiere: il Rione Incis Club, formazione di dilettanti iscritta al girone C della Terza Categoria provinciale napoletana.

Il libro è diviso in 22 capitoli così come 22 sono le partite di quel torneo, ma dietro al calcio c’è molto di più. Ne emerge una storia di vita fra passato e presente che riporta agli occhi del lettore moderno tutte le contraddizioni ancora insite nel Sud d’Italia.

Recensione di Cagliosa di Guseppe Franza

Se vuoi parlare di Napoli in un romanzo, lo devi fare con il dialetto natio di Napoli. Farlo in altro modo “accunciando” i verbi, i tempi, i soggetti, le espressioni nominali e i detti degli abitanti commetteresti un errore. Se per giunta vuoi ambientare il tuo romanzo a Ponticelli, ancor di più devi saperti calare nei panni di chi vive le situazioni di un rione di periferia del capoluogo campano. Ecco, perché Giuseppe Franza, autore di “Cagliosa” (casa editrice Ortica) sapeva sin da quando aveva iniziato il suo romanzo di non poter solo parlare di calcio giocato (qui la storia dell’origine di questo sport), ma di un vissuto sociale che va sentito sulla propria pelle per poterlo raccontare.

Se leggete questo romanzo con la ritrosia, i luoghi comuni e gli stereotipi che vengono additati ai napoletani, non apprezzerete niente e il dialetto o meglio – diciamolo subito – l’italiano regionale che caratterizza il dettato linguistico vi risulterà un insieme di geroglifici egizi da “stele di Rosetta”. Se, invece, ci metterete il cuore e la pazienza di comprendere quel mondo, allora questo libro vi risulterà bellissimo e la parlata locale vi risulterà comprensibile, affabile e simpatica. E, come è accaduto a me, proverete anzi piacere a scoprire come i napoletani usino espressioni particolari e come a volte il mondo della periferia sembri davvero un’altra storia, un altro mondo, un’altra società.

Il protagonista di venticinque anni Giovanni, tuttavia, tenta sotto la guida attenta del narratore di uscire da questo mondo infame fatto di imbroglioni, bugiardi, approfittatori e vittime. Ma per riuscire dovrà cambiare la propria mentalità, la propria inerzia di vita e uscire dalla metafora vitale della “caiola” e della “mela che non cade mai lontano dall’albero“. Cosa non facile, se sei nato a Ponticelli e tutti ti hanno sempre visto come un ragazzo che rubava i motorini per vivere, uno scansafatiche che si arrangiava e che non aveva nessuna speranza di migliorare la propria condizione sociale: una bestia, un rozzo e un ignorante. Così lo credono la sua ragazza, i suoi compagni di squadra e i suoi stessi famigliari. Tutti quelli di Ponticelli o quasi vivono nella convinzione di un’esistenza che è riassunta nella frase di Giovanni: “La vita, tanto, di base era una chiavica, una filiera ottusa di casualità e infamità senza nemmanco mezzo accenno di giustizia“.

Oltre al talento artistico – espresso nelle street art delle vie di Ponticelli – Giovanni in realtà è un ragazzo che ha una propria morale, ha un proprio pensiero ed è perfino sognatore. Rispetto al nonno, al padre e alla madre che sono rimasti fregati, lui sente di saper ragionare sulla propria esistenza e lo fa con mentalità grezza, ma mai arrendevole.

Calcio dilettante a Napoli

Così l’appartenenza alla squadra dei dilettanti del Rione Incis diventa non tanto una spazio vitale per sfogarsi, per reprimere una vita malandata, ma una metafora di vita. Giovanni quando gioca, quando passa la palla e quando segna, pensa e non tralascia le emozioni della propria esistenza. Non scollega il cervello dagli impegni e problemi personali come fanno gli altri. Mentre i suoi compagni vanno in campo per sfogarsi fra fallacci, scarpate, gomitate e risse, lui, no. Lui vive quell’attimo della partita come un percorso, una tappa della propria vita. Ed ecco forse il perché, davanti allo specchio di una realtà diversa più raffinata, equilibrata e più profumata come quella che porta la bellissima giornalista Damiana, il percorso di miglioramento di Giovanni coincide con quello di una “squadraccia come la sua”.

D’altronde il calcio che aveva conosciuto per dieci anni era un calcio per animali, bestie e per spettatori ancora più “bestie. Così dichiara nel trafiletto di un’intervista:”Non è uno sport, è uno spettacolo da circo, con le belve che si scannanno a vicenda. Scendi in campo e vedi di resistere, di evitare di finire ‘o’ ‘spitale: quest’è“. Campi fatti di terriccio, voragini, pozzanghere, pietre appuntite, erbacce, buche. Arbitri disinteressati e spesso impauriti. Tifosi arrembanti e violenti. Minacce in campo e “azzuffate” violente. Un calcio dilettantistico, che forse Giuseppe Franza ha un po’ esagerato e forzato. Ma tuttavia non molti distante da una realtà o condizione vergognosa. Ma le bestie in campo, lo sono anche fuori e la sopravvivenza c’è in ogni attimo dell’esistenza di chi vive a Ponticelli fra furti, sparatorie, malavita e mentalità retrogada.

Distante è il gioco del pallone che noi conosciamo nell’estetica del sarrismo, del “tiki taka” di Guardiola, del pressing, del calcio moderno e della tattica delle telecronache. Concezioni che peraltro Giuseppe Franza, con la parola di Giovanni, mostra di conoscere benissimo

Qui, in queste situazioni, si gioca di catenaccio, di palla spazzata, di falli, di casualità e a casaccio. E mister Miglionico che cerca di far di tutto per dare un inquadramento tattico a questa squadra è la perfetta contraddizione, che non potrà mai concretizzarsi.

Il calcio metafora di vita

E il calcio, poi, nelle parole scritte di Damiana, diventa anche una metafora di vita. Esce dal suo orizzonte periferico per mutarsi in una visione esistenziale a tratti piena e a tratti vuota.

Un gioco che si piglia sempre con troppa serietà, dilettevole, perché snervante e talvolta angosciante, in cui si pretende di poter risolvere tutto con la tattica ma dove poi ogni protagonista si affida al talento, alla furbizia o alla fortuna. Il calcio, scriveva la giornalista, è una tradizione fondata su regole puramente esteriori, senza senso, che acquistano valore sproporzionato, perché senza quelle regole non ci sarebbe gioco, polemica, ostacolo e quindi niente spettacolo, stupore, soddisfazione, emozione…“.

Come a dire che il calcio di fondo non è divertente come non lo è la vita, ma piuttosto si adegua al limite stesso dell’esistenza e ti insegna ad accettare la legge e a industriarti nelle concessioni possibili. Insomma una morale chiara: la vita in fin dei conti è tutta una bugia. E il calcio in parte la smaschera.

La mentalità napoletana e la sua filosofia di vita

D’altronde Giuseppe Franza non può che rispecchiare nell’azione e nel pensiero il fatalismo negativo che caratterizza Giovanni, la sua famiglia e lo stesso rione di Ponticelli: oltre un certo limite non puoi andare. Che poi è la stessa morale che si incarna negli altri romanzi o film che si ambientano a Napoli. In fondo è un po’ la stessa summa della visione “meridionale” della vita.

Ma proprio per poterla cogliere in tutta la sua interezza apprezzo la scelta di Giuseppe Franza di scrivere in un italiano regionale, che rispecchi quanto più possibile l’accento, la cadenza, la struttura grammaticale del napoletano. “Allucà, rattuso, ja, chianchiere, schiattà, c’azzaccano” e ovviamente tantissimi altri vocaboli sono l’idioma naturale che colora questo libro, che dà senso e che coinvolge il lettore – capace di un po’ di immaginazione – e lo immerge completamente nelle viscere corali delle storie di vita di Giovanni e compagni. Con un esperimento linguistico, di ascendenza “Verdiana”, che recupera dai “Malavoglia” un memetismo realistico eccezionale sia come parlato che come giudizio sulla vita.

Un’operazione non facile, specie per chi è nato a Napoli. Riportare apostrofi, accenti, anastrofi, raddoppiamento consonantici, parole spezzate e tutta la miriade dei detti popolari che non è affatto semplice produrre per iscritto. Un dialetto che è riportato per filo e per segno, con addirittura un’operazione ancora più complessa quando Giuseppe Franza decide di dare sfogo al discorso diretto del pensiero del povero compagno di squadra colpito da un trauma cranico.

La scelta di riprodurre il parlato di quartiere in un romanzo è un chiaro segno distintivo e d’orgoglio che lo scrittore non rifiuta. Un modo quanto mai coloristico di calcare la mano su una filosofia “spiccola spicciola” come quella del napoletano.

E chi meglio del nonno Franchetiello la può riassumere nella frase (qui da me interpretata): il mondo è un mondo di merda, dove uno non ha tempo per divertirsi e dove non esiste la squadra: stai sempre solo tu, contro tutti quanti. Nella vita vera non ci stanno le regole e non ci stanno manco gli arbitri. Il mondo è una guerra, non una cosa in cui ci si può divertire.

Se questo pensiero sia un tarlo fisso, un credo del napoletano medio o meno, non è dato saperlo. Certamente, però, riassume in pieno vigore l’inerzia vuota dove spesso, alla fine dei conti, noi ci troviamo a vivere. Non ce lo dice con le parole di Giambattista Vico o di Schopenhauer, ma lo fa con i saggi detti popolari.

Ed è proprio per la capacità di farci entrare fra “pacchere” e “scuorno” nel microcosmo di Ponticelli con le sue urla, i suoi dialoghi, i suoi litigi, le sue liti, le risse e i pensieri dei protagonisti e di saper allargare (a guisa di un campo di calcio) l’orizzonte fino alla vita stessa rende questo libro bellissimo e a tratti perfino commuovente. Ma ripeto, per l’ultima volta, va capito e apprezzato così com’è.

Cagliosa di Giuseppe Franza scheda

Titolo: Cagliosa
Autore: Giuseppe Franza
Editore: Ortica editrice
Genere: Narrativa contemporanea, romanzo sociale, sport
Data pubblicazione: 28/11/19
Pagine: 322
Prezzo: 16,00 €
ISBN: 978-88-97011-90-3
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